La pacchianeria di New York e la semplicità di Boston: due Little Italy a confronto
Da un po' di tempo a questa parte non faccio altro che leggere dei numeri che riguardano l'aumento dei flussi migratori verso il Regno Unito, Londra in particolare, e di come gli italiani costituiscano una delle comunità più ampie in questo paese. Un discorso che in realtà non si smette mai di affrontare, soprattutto da qualche anno a questa parte. Ma guardiamo in faccia la realtà, è da quando Colombo andò dalla regina di Spagna per farsi finanziare il viaggio che non smettiamo di abbandonare il nostro paese in cerca di opportunità migliori. Siamo cresciuti con le storie dei nostri nonni che partivano con la valigia di cartone per andarsene in America. E oggi, io che faccio parte di quella che un giorno verrà forse ricordata come una nuova ondata migratoria a corto raggio, non posso fare a meno di guardare indietro a quegli italiani che invece affrontavano mesi di viaggio in nave per stanziarsi dall'altro lato del mondo. Per cercare fortuna e crearsi una nuova vita, consapevoli che forse non avrebbero mai più rivisto la loro famiglia e la loro terra. Altro che voli low cost da due ore per ritornare a casa a ogni festa comandata.
Il termine Little Italy è stato praticamente coniato in America per essere poi esportato in tutto il mondo a identificare quelle aree dove si sono create le comunità di immigrati italiani. Non si contano questi quartieri negli Stati Uniti, ma due sono le principali città che maggiormente rappresentano questo tipo di comunità: New York e Boston. Ma sono anche due rappresentazioni molto diverse della cultura italiana negli Usa: il confronto tra queste due realtà agli occhi di un turista che, in viaggio negli Stati Uniti, avesse la possibilità di visitarle entrambe lo lascerebbe un po' spiazzato. In questo caso il turista in questione sono io: ecco le mie impressioni di questo confronto.
Little Italy, Manhattan, New York
Senza dubbio la Little Italy più famosa di tutto il mondo. E, anche se persino i sassi sanno dove si trova, va specificato che parliamo di Manhattan: perché in realtà New York di Little Italy ne conta almeno una decina. Ma è questa quella che viene rappresentata nell'immaginario collettivo, per intenderci quello che si è creato sulla base di film di mafia e pizzaioli emigranti. E come non si può essere affascinati da quelle immagini così caratteristiche, in cui venivano raffigurati scugnizzi e pescivendoli condurre la loro vita come fossero nel meridione d'Italia, ma attorniati da grattacieli altissimi?
Un luogo comune che ha catturato anche me: al mio arrivo a New York desideravo ardentemente vedere il "quartiere italiano", dove pensavo che avrei trovato il vociare chiassoso dei mercati di Forcella o della Vucciria, bancarelle di frutta, negozietti di artigiani, e quant'altro potesse farmi sentire a casa. Ma la delusione era in agguato. L'immagine che mi ero dipinto, che mi avevano costretto a crearmi, era totalmente illusoria: Little Italy non è altro che una delle attrazioni più fasulle e pacchiane che potreste trovare a New York. Di quelle che possono piacere solo agli americani.
Qui tutto urla italianità come niente e nessuno farebbe mai in Italia. Dovunque ci si volti a guardare, dalle bandiere agli idranti, si nota un numero imprecisato di stemmi tricolore che neanche durante la vittoria ai Mondiali. Negozi di souvenir il cui unico scopo è richiamare alla mente l'immagine sterotipata dell'italiano mafioso o tamarro. E una sfilza di "autentici ristoranti italiani" con menù improponibili e personale che probabilmente sullo stivale non ci ha mai messo piede. Una chiacchierata veloce con un messicano alla porta che ci invitava a entrare e che, appena scoperto che eravamo italiani, ha cercato di convincerci sulla bontà dei sapori con pietanze tipiche come "fettuccine al pollo" e "autentica pizza napoletana, quella con la crosta sottile".
Naturalmente non posso non fare riferimento ai nomi degli esercizi commerciali, che ripropongono le uniche parole italiane comprensibili agli americani, come "Ciao Bella", "Amici" o quant'altro. O accostamenti improbabili, come il ristorante da Gennaro che per logo aveva un monumento tipicamente napoletano come il Colosseo. A tutto questo aggiungi un enorme insegna con la scritta "Welcome to Little Italy", ed ecco che il quartiere sembra una ricostruzione ad hoc in stile Epcot a Disneyworld.
La Little Italy di Manhattan è la rappresentazione in scala reale dell'idea che gli americani hanno dell'Italia. Ed è in effetti quella che gli propiniamo noi nelle maggiori città turistiche come Roma, Firenze e Venezia, dove fanno brutta mostra di sé ristoranti con tricolore ostentato, nomi banali e menù adattati ai gusti dei turisti stranieri. Per cui non possiamo fargliene una colpa. Perché quella Little Italy l'hanno creata i nostri progenitori che, partiti per cercare fortuna, hanno capito bene che quest'ultima era da trovare proprio nella nostra cultura tanto ricercata e imitata. Da servire però secondo i gusti dei locali. Per cui un aggiusto qui, una contaminazione qua, tramandiamo le arti ai nostri figli che l'Italia l'avranno vista solo in cartolina, ed ecco come imbastardire l'immagine di un popolo. Forse un tempo la Little Italy di New York era davvero come la sognavo io, in quell'immagine patinata che i film avevano ricostruito nella mia mente.
Non tutto è da buttar via, però. Perché da qualche parte salta fuori qualcosa di simpatico. Ad esempio un deli che espone prodotti d'importazione italiana, naturalmente a prezzo maggiorato, e un'ampia selezione di dolci di pasticceria nostrani. Ma quello che più mi ha colpito è l'Italian American Museum, ovvero il museo degli italiani a New York. Con tutto il carico di storia che si portano dietro ti aspetteresti un immenso edificio che narri in maniera dettagliata dell'immigrazione e dell'enorme contributo che hanno dato gli italiani alla crescita degli Stati Uniti. E invece si tratta di un piccolo spazio museale con pochi reperti, che sembra quasi fuori luogo rispetto alla mole di chincaglierie dozzinali per i turisti.
L'Italian American Museum però ha una precisa ragione di esistere. È infatti ricavato all'interno di un edificio storico che era la Banca Stabile, fondata nel 1885 da un emigrante italiano illuminato, Francesco Rosario Stabile. Questi aveva capito la necessità di creare un punto di aggregrazione per la comunità italiana a New York: la banca infatti era nata per permettere agli immigrati italiani di spedire i loro soldi alle famiglie a casa. Ma in seguito, oltre ai diversi servizi finanziari, la banca cominciò a svolgere a occuparsi di servizi postali e telecomunicazioni, import-export, attività notarili e persino vendita di biglietti a prezzi accessibili per le navi verso la madrepatria. L'ennesima espressione del genio creativo italiano.
Il museo ospita, tra i vari reperti, l'originale cassaforte dove si conservano molti documenti originali, vecchi di un secolo. Viene raccontata la storia di Stabile e altri italo-americani eccezionali. Come Luigi del Bianco, capo carpentiere nella realizzazione del volto dei presidenti americani sul Monte Rushmoore. O Giuseppe Petrosino, il primo italo-americano a entrare nella polizia newyorchese, che diresse una lotta senza quartiere alla criminalità mafiosa nella città. Altre esibizioni sono dedicate a icone come il presepe napoletano o la Madonna di Pietranico. E non mancano naturalmente reperti simbolo dell'immigrazione, come la valigia, la caffettiera napoletana o il mandolino.
L'Italian American Museum è quel genere di museo che si sforza per arricchire la cultura dei turisti al di là delle trovate commerciali. E in effetti ti chiedi come mai questa struttura non sia ospitata in un edificio più grande, meritevole, con un'ampia collezione di reperti storici. Eppure è solo lì, in un angolo tra Mulberry e Grand Streets, senza una facciata magnificente o banner pomposi. L'ingresso è totalmente gratuito, ma una donazione è più che benvoluta, visto che il museo si regge sul lavoro di appassionati volontari che faranno di tutto per educarvi sulla storia dei nostri grandi antenati. Un barlume di autenticità in una Little Italy altresì desolante.
North End, Boston
Boston è sempre stata il fulcro dell'immigrazione negli Stati Uniti, sin dai tempi in cui fu fondata dai puritani inglesi in fuga dalle persecuzioni nei loro paesi. Nel XIX secolo furono gli irlandesi e gli italiani che arrivarono in massa nella città: un filmato molto simpatico che vede il confronto tra due immigrati dei diversi paesi si può vedere in cima alla Prudential Tower, che ospita un'intera mostra sull'immigrazione. Ma dove vediamo la presenza dei nostri compaesani nella capitale del Massachussets?
North End è la Little Italy di Boston, anche se ufficialmente non viene chiamata con questo nome. Si tratta per lo più di una strada dove si possono trovare numerosi ristoranti, pasticcerie e gelaterie italiani. Una strada che, a parte i nomi dei locali, non darebbe nessun'altra indicazione immediata sulle origini della comunità del posto. Questo perché molti dei nomi che fanno riferimento a santi o personaggi italiani sono stati inglesizzati, assumendo quella tipica connotazione italo-americana. A quanto pare, però, anche qui vi sono eventi folkloristici che richiamano i turisti, come la festa di Sant'Antonio con la sua processione.
A North End si respira un'aria più autentica della Little Italy di New York. I ristoranti non si presentano con il classico menù acchiappa-turisti, bensì con delle portate più sofisticate e un'atmosfera di fine dining. Intendiamoci, ci sono sempre i compromessi, perché i turisti pagano e bisogna soddisfare i loro gusti. Ma si percepisce uno sforzo maggiore nel mantenere i contatti con la terra d'origine, anche se chi li gestisce appartiene comunque alla seconda generazione.
Si riescono persino a scovare piccoli gioielli come il deli Bricco, una vera e propria salumeria italiana localizzata all'interno di un vicoletto: qui è possibile realizzare dei signori panini come si farebbero dalle nostre parti. Panini che tra l'altro vengono sfornati nella panetteria affianco, che riporta lo stesso nome. Ed entrambi si trovano vicino a un omonimo complesso di eleganti appartamenti per turisti. Il marchio ricorre addirittura nella toponomastica del vicolo, che prende il nome di Bricco Place. Indagando più a fondo si scopre che queste tre attività fanno parte di un'intera holding appartenente a tale Frank DePasquale, un italo-americano che ha numerosi ristoranti ed esercizi commerciali a North End, la cui missione è far conoscere ai residenti i sapori della terra dei suoi genitori, che lui stesso ha avuto modo di sperimentare sul posto. E, almeno per quello che ho assaggiato io, ci riesce abbastanza bene.
Ma DePasquale non è l'unico, perché altri imprenditori si dividono le varie fette del mercato in questo quartiere. Come ho detto, il primo impatto con North End è positivo: anche se si strizza l'occhio al turista, un italiano non si sente completamente a disagio. Insomma, la commistione tra culture a Boston è avvenuta in maniera più equilibrata, e non si è piegata al commercio, ma solo inchinata. E il massimo del kitsch che si può incontrare da queste parti è una panchina dipinta col tricolore.
Poi si trovano quelle perle che invece rappresentano il genio di qualche residente locale. È il caso della All Saints Way, un vicoletto che è un vero proprio santuario privato realizzato da tale Peter Baldassari: questi ha accumulato nel corso della sua vita un'impressionante quantità di icone votive dedicate ai santi più disparati, e le ha usate per decorarvi un intero vicolo. Nonostante il nome della sua collezione faccia bella mostra di sé in cima a un cancello, ha deciso però di mantenerla privata. A quanto pare ogni tanto effettua dei veloci tour, ma io non sono stato così fortunato durante la mia visita.
La piccola passione di Baldassari, l'impegno imprenditoriale di DePasquale e, in passato, l'importante ruolo svolto nella società da personaggi come Stabile: sono solo alcuni dei tanti lati della creatività italiana che riesce a tramandarsi per generazioni. Un talento per cui siamo famosi nel mondo da secoli, che ci viene invidiato e addirittura rubato, fino a quando non siamo noi a decidere di esportarlo quando il nostro paese non ci permette di coltivarlo. Ecco, appunto: quando smetteremo di creare tante Little Italy all'estero e ci decidiamo a ricreare una Grande Italia in casa nostra?
[Tutte le foto sono di Giuseppe A. D'angelo]